rAn number 4, February 1993
The  zine  is no copyrighted for the anarchist movement, please if  you  use
"rAn"  for your publications, please send us a copy. More  informations  in
the read me file.
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The  topics  of  this  fourth issue are the use and  the  origins  of  the
political  slogans.  There  are  articles about  the  misuse  of  the  word
"tolerance",  the nationalist slogans, the political slogan in Italy and  a
text about the relationship between rap music and slogans.
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rAn, n.4, febbraio 1993



per la liberazione dell'intelligenza
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Sulla   testata   di   rAn  appare  uno   slogan:   "per   la   liberazione
dell'intelligenza".  Questa  straordinaria capacita' della mente  umana  e'
stata ed e' ancora al centro di innumerevoli ricerche, per questo  tutt'ora
si   scontrano   i  sostenitori  delle  teorie   genetiche   ambientali   e
cibernetiche,  ognuno  con  le  sue  conferme  sperimentali  definitive   a
proposito    dell'origine,    dello   sviluppo    e    del    funzionamento
dell'intelligenza  E'  quindi molto difficile definire  l'intelligenza,  ma
allora  perche' quello slogan? L'ennesima contraddizione? Forse. E'  facile
invece  affermare -proprio per la ragione scritta prima- che  non  esistono
stupidi,   ma   solo  persone  che  ragionano  ed   agiscono   in   maniera
autolesionista.  In  questo  senso possiamo  definire  l'intelligenza  come
l'esatto  opposto dell'autolesionismo: e', per certi versi,  la  differenza
tra gli sfruttati che si autoorganizzano e quelli che continuano a  subire.
Ma  passare  dall'autolesionismo  all'intelligenza  non  e'  semplice,  non
servono  atti  di  fede  o  spiegazioni  razionali,  e'  un  processo  piu'
complicato  dell'intelligenza  stessa,  come se vi  fossero  delle  vere  e
proprie catene immateriali che costringano in una spiacevole condizione. Il
nostro  e' uno slogan ottimista e, anche se all'orecchio suona  come  altre
frasi: "per la liberazione degli sfruttati (del proletariato, dei  compagni
arrestati,  ecc.)",  non ha lo stesso spirito missionario di alcune  ed  e'
meno lugubre di altre, anche se, in un certo modo, le comprende. La domanda
sibillina "Siete per l'ultimo dei mohicani o per il villaggio di  Asterix?"
e'  invece una provocazione in attesa di risposte da indirizzare  a:  Nabat
Casella Postale 318, 57100  LIVORNO.
Qual'e'  il  migliore,  l'orologio che segna l'ora giusta  solo  una  volta
l'anno o l'orologio che segna l'ora giusta due volte tutti i giorni? (Lewis
Carroll, The Rectory Umbrella, 1849)
RAN

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Lo slogan: a prescindere
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Rubando  le parole del filosofo Oliver Reboul, si puo' tentare di  regalare
la seguente definizione (per altro affatto definitiva):
"Chiamo  slogan  una forma concisa e che colpisce,  facilmente  ripetibile,
polemica  e generalmente anonima, intesa a sollecitare le masse  all'azione
sia  per il suo stile sia per l'elemento di autogiustificazione, emotiva  o
razionale,  che  vi e' inserita; siccome il potere di  'incitamento'  dello
slogan va sempre oltre il suo significato letterale, il termine ha un senso
piu' o meno peggiorativo."
Definizione  questa  in  qualche  modo  riassumibile  in  uno   specchietto
comparativo  che  evidenzia  le  differenze  di  significato  tra   termini
solitamente ritenuti sinonimi.
Questo   tentativo  di  definire  lo  slogan  necessita  pero'  di   alcune
annotazioni.
-Non si fa riferimento alla pubblicita' e alla propaganda, ma d'altra parte
lo slogan e' esistito prima ed esiste fuori di esse.
-L'inventore  dello  slogan e' esso stesso la prima vittima  della  formula
propagandata.
-Lo slogan non e' razionale ne' irrazionale, in quanto perche' passionale e
razionale  sono  tutt'altro  che antitetici, specie in  politica,  dove  la
passione  e  l'odio sono generalmente ragionati. E la ragione,  la  "ragion
pura" di Kant, e' quasi sempre la paladina di una passione, non fosse altro
che della passione di aver ragione.
-Negli  spot commerciali, nei cori da stadio, nei conflitti nazionali,  nei
contrasti ideologici, lo slogan previene sempre per sua natura ogni critica
e  ogni  dialogo (es: Mussolini ha sempre ragione; i  fascisti  non  devono
parlare;  o  cosi' o pomi'; con il comunismo non si discute,  si  combatte;
fatti,  non  parole...) resta dopo tutto quel che fu alle sue  origini:  il
grido di guerra di un clan.
-Slogan  commerciali,  politici  ed ideologici appaiono  infatti  avere  in
comune  una stessa "attitudine", indipendentemente da chi ne fa  uso:  "Non
parliamo per dire qualche cosa ma per ottenere un certo effetto"  (Goebbels
o Lapalisse?).
 J.R.

                        A       B       C       D       E       F ---------
----------------------------------------Consegna                 +        +
-       -       +       -Parola d'ordine +       +       +       +        -
-Motto                    +       -       +       +        +        -Slogan
+       +       +       +       +       + ---------------------------------
----------------
A formula concisa, in generale anonima o tendente all'anonimato,indirizzata
a  soggetti  collettivi; B destinata a far agire in funzione di  uno  scopo
preciso  dotata  di spirito polemico; D passionale e poetica  nella  forma;
comporta un elemento di giustificazione e dunque puo' essere vera o  falsa;
ha un senso peggiorativo (es: "parlare per slogan").

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Il falso valore della tolleranza
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In  questi  ultimi  mesi,  durante  i  quali  la  sete  di  sensazione  dei
giornalisti  e  le loro stesse malefatte hanno conquistato  ai  microcefali
pelati le prime pagine, i mezzi di comunicazione di massa e con loro un po'
tutto  l'antinazismo  democratico ci hanno  proposto/imposto  come  "parola
chiave"  (slogan  aggregante  ed  obiettivo di  una  tensione  utopica)  la
TOLLERANZA:   "per  una  societa'  tollerante",  "per  una  cultura   della
tolleranza"  ecc.  Il  termine "tolleranza" rappresenta,  secondo  me,  una
trappola    linguistica:   esso   sale   alla   ribalta   come    negazione
dell'intolleranza,  caratteristica  dei  nazi,  e  viene  dato  come  unica
possibile  opposizione alla marea montante del razzismo. Ma se, in se',  la
tolleranza  e' sempre meglio dell'intolleranza (quanto meno non fa  male  a
nessuno),  non puo' neanche essere il valore fondante di una  societa'  che
superi   le  discriminazioni.  Letteralmente  io  "tollero"   qualcosa   di
fastidioso,  ma  che  non reputo grave. Quindi,  "tollerero'"  il  negro  o
l'omosessuale  in quanto la loro diversita' e' tutto sommato un difetto  di
minore  importanza, ma questo non vuol dire che non sia un  difetto.  Siamo
ben  lontani, dunque, dalla pari dignita' o dal rispetto  della  diversita'
come  patrimonio "altro" (e complementare) dal nostro. La tolleranza,  come
atteggiamento  sociale  e  come modello di  convivenza  tra  "diversi",  e'
univoca  e gerarchica: essa propone infatti un rapporto dall'alto verso  il
basso,  in cui e' sempre il forte che, in quanto tale, puo' permettersi  di
tollerare il debole. Non rappresenta un superamento della  conflittualita',
ma solo la sua sospensione per disparita' delle forze in campo. Il concetto
di tolleranza propone, in fondo, una societa' pacificamente  gerarchizzata,
in cui la differenza e' sopportata, ma non si offre (o non si valuta)  come
ricchezza  collettiva:  al diverso e' concesso si' un posto, ma  sempre  in
posizione di subalternita'. Storicamente, le societa' "tolleranti" si  sono
sempre  riservate il diritto al pogrom, proprio in quanto tollerare non  e'
sinonimo di rispettare, e perche' si puo' tollerare qualcuno senza smettere
di  considerarlo "inferiore". Come scordarsi poi che, non a caso, le  "case
di  tolleranza"  erano  i ghetti dove la prostituzione  era  sopportata  in
quanto  "male inevitabile", ma dove la dignita' sociale delle donne non  ha
fatto  certo  i suoi piu' significativi progressi!  Un'altra  faccia  della
medaglia  e', a volte, l'assolutizzazione del concetto di  tolleranza,  per
cui si deve essere in grado di sopportare tutto in nome del rispetto  della
diversita':  se  litigo  con  un nero per  motivi  di  viabilita'  sono  un
razzista,  ma  nessuno trova niente da ridire se per le  stesse  ragioni  e
negli  stessi  termini  mando  affanculo un  bianco.  Oppure  si  tollerano
crudelta'  e palesi ingiustizieperpetrate in culture diverse dalla  nostra:
con  il  distacco di un etologo osserviamo la  lapidazione  delle  adultere
nell'islam   o  il  rogo  delle  vedove  indu'  sulla  pira   del   marito.
L'indignazione  per l'offesa recata ad un essere umano e' scavalcata  dalla
comprensione per le "inevitabili imperfezioni" di una cultura che,  essendo
diversa  dalla nostra (che in quanto vincente e' la "piu' avanzata", e'  la
civilta'   per  antonomasia)  deve  ancora  percorrere  il   "cammino   del
progresso". E' infatti il rapporto gerarchico che instauriamo fra la nostra
cultura  e  l'altrui  che ci consente di  sentirci  "super  partes",  cioe'
tolleranti.  La  tolleranza sempre quindi come fenomeno di  una  mentalita'
gerarchizzante che finisce per porre il bianco, l'occidentale, il "normale"
in grado di tollerare in quanto superiore (cioe' protetto dal denaro, dalla
tecnologia,  o semplicemente dal numero). Ma quello che viene da  chiedersi
e'  come mai, sui mezzi di comunicazione di massa, l'attacco neonazista  e'
presentato come lo scontro tra le idee antinomiche tolleranza/intolleranza?
Il termine che sembra si voglia assolutamente evitare e' "antifascismo": da
un  punto  di  vista commerciale e' francamente  obsoleto,  ma  soprattutto
implica   un  coinvolgimento  diretto   nell'opposizione   all'intolleranza
razzista,  un passaggio "dall'indignazione all'azione" che puo'  avere  una
portata  che  va  oltre lo scontro col nazi per estendere  una  pratica  di
"azione  diretta" o di "autodifesa attiva" ad altri aspetti  del  confronto
sociale.  Va detto inoltre che quasi mai gli antagonisti che,  in  Germania
come   in  Italia,  si  sono  scontrati  coi  nazi,  sono  stati   definiti
"antifascisti" dai media; l'aggettivo, legato tuttora alla mitologia  della
fondazione della Repubblica, rischierebbe di legittimare gruppi e movimenti
che si preferisce invece criminalizzare. L'antifascismo puo' essere  ancora
in qualche misura destabilizzante, la tolleranza no: essa non fa parte  del
patrimonio  linguistico dell'antagonismo sociale, e' un termine da  circoli
liberali,   da  sagrestie  in  vena  di  ecumenismo,  e'  parola  laica   e
democratica,   digeribile   per  tutti  (prova  ne  sia   il   fatto   che,
probabilmente,  nessuno o quasi accetta l'epiteto di intollerante,  ma  che
neanche quello di antifascista e' granche' popolare). La tolleranza diventa
quindi parola d'ordine preferita in quanto implica democrazia (intesa anche
come gestione pacifica dello statu quo e della gerarchia sociale), e quindi
anche  delega  allo  stato democratico e alle  "autorita'  preposte"  dello
scontro   diretto   (anche   fisico)  con   l'"aggressore".   La   societa'
"tollerante",  dunque,  chiede  alla sua polizia  di  fermare  i  naziskin,
affinche'  tutto torni come prima, con i neri a vendere accendini e  noi  a
comprare maschere alle fiere di beneficenza. D'altra parte, infine, sarebbe
un  po' ridicolo spaccare la testa a un nazi in nome della tolleranza...  O
no?
Panurge

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Scemi, scemi...
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C'e'  un  corteo in lontananza, provate a indovinare chi  sono  quelli  che
marciano silenziosi senza bandiere e/o striscioni in vista, se non  gridano
qualche  slogan  (che avete gia' sentito): e' impossibile, a meno  che  non
conosciate  personalmente qualcuno dei partecipanti. Gli slogan  servono  a
classificare le varie componenti di una manifestazione.
Dal  punto  di  vista espressivo la varieta' degli  slogan  e'  enorme:  vi
convivono soluzioni linguistiche ardite(1) e originali accanto a  cantilene
tradizionali(2).  Lo  slogan  e' un buon  indice  della  "temperatura"  del
corteo,  se mancano gli slogan difficilmente la manifestazione  soddisfa  i
partecipanti.
C'e  sempre  qualcuno  che sbaglia a gridare lo slogan  (anche  perche'  ne
esistono varie versioni)(3): ci sono gli slogan "a dispetto", cioe'  quelli
che riprendono uno slogan altrui(4); quelli "regionali", spesso in dialetto
che,  in qualche caso vengono ripresi anche in regioni  diverse(5);  quelli
che "continuano" uno slogan precedente(6); quelli con una metrica difficile
e/o  inconsueta  (di solito gli slogan sonoin  rima  baciata(7),  perlopiu'
endecasillabi o dodecasillabi(8)).
Il  contenuto dello slogan e' divisibile in due parti: nella prima si  dice
qualcosa  contro qualcuno e nella seconda il nostro parere(9), nella  prima
si pone un problema e nella seconda la soluzione(10).
Gli  slogan,  a  volte,  hanno  diverse  interpretazioni:  "ora  e  sempre:
resistenza",  slogan  ampiamente riciclato e riutilizzato, ad  un  orecchio
attento  potrebbe suonare anche in modo totalmente diverso  dall'originale:
"ora,  e'  sempre  resistenza";  da intendersi  come  "siamo  sempre  nelle
condizioni  di oppressione di un regime autoritario e dobbiamo  comportarci
di conseguenza".
Lingue   straniere  ammesse  per  gli  slogan:  inglese(11)  (dal   50/60),
francese(12) (fin dal '68) o spagnolo(13) (dal '73).
Quante  volte  va  ripetuto uno slogan? Nel maggiore dei  casi  tre  volte,
alcuni vanno eseguiti in crescendo, aumentando il volume e il tempo, ma poi
c'e' sempre quello che si trova a gridarlo da solo.
Lo  slogan  serve  a  "caricarsi"  e  a  farsi  sentire  sia  dagli   altri
manifestanti che dalle persone che incrociano il corteo, ma soprattutto dai
primi. Lo slogan, nei cortei, serve piu' che altro all'identificazione:  il
ruolo  e'  principalmente quello di comunicare agli altri  partecipanti  la
propria presenza.
Noi,  gruppo-partito-ecc.,  siamo  qui nel  corteo,  siamo  quelli  che...,
gridiamo  questo  slogan, a questa categoria di persone  (sbirri,  padroni,
fascisti, borghesi, ecc.).
Col passare del tempo, fortunatamente, sono diventati obsoleti quei tipi di
slogan articolati sui nomi delle "guide" della rivoluzione(14); chi  scrive
giura  di  aver sentito (anni addietro) anche una  versione  anarchica  dei
medesimi, anche se forse gridata solo ironicamente(15).
Che  slogan  facciamo? C'e' sempre il compagno fissato con  un  particolare
slogan  e  c'e' sempre quello (di solito ha un megafono)  con  la  scaletta
pronta: gia' stampata su carta e distribuita al "coro", oppure preparata in
fretta  la sera prima, quando non viene in mente nessuno slogan  nemmeno  a
pagarlo.
Lo  slogan di partito: e' sempre lo stesso (come il suo simbolo  serve  per
farsi  riconoscere senza problemi) e' un marchio16;  cambia  contenuto(17),
mantenendo lo stesso ritmo, a seconda delle occasioni.
Lo  slogan  "creativo" (anche se e' difficile  urlare  "l'immaginazione  al
potere"): di derivazione settantasette; lo "scemo-scemo" prosegue per altri
lidi,   tocca   la  tv,  approda  definitivamente   allo   stadio;   slogan
surreali(18),  dadaisti  e futuristi durano troppo poco per  entrare  nella
memoria collettiva.
Perche' "muore" uno slogan? Quando non e' piu' di attualita'(19) Quando  ci
si vergogna a farlo(20) Quando si dimentica(21) (quelli che lo facevano non
ci sono piu')
Gli slogan vengono riciclati sia dai gruppi politici che dalla  pubblicita'
che  non bada a sottigliezze, vanno bene sia quelli dei riformisti(22)  che
quelli dei rivoluzionari(23).
Gli slogan di partenza del corteo (quelli detti col piede che avanza) ed  i
loro parenti ritmati con le mani(24) (in altri anni anche con le aste delle
bandiere battute per terra).
Lo slogan e' anche: una parola d'ordine (apriti sesamo, altola'  chi-va-la'
fatti riconoscere) qualcosa che ti permette di fare parte di  qualcos'altro
(siano  essi  i  40 ladroni o l'esercito); un  luogo  comune  (parlare  per
slogan, scrivere per slogan).
Chi inventa gli slogan? Lo stesso che inventa le barzellette? A volte,  gli
slogan sono come le barzellette e le barzellette come gli slogan.
Pepsy

NOTE -----
( 1) Siamo belli, siamo tanti, siamo covi saltellanti.
( 2) E' ora, e' ora, potere a chi lavora.
(  3)   I porci fascisti non devono parlare, le loro  sedi  devono  saltare
[bruciare].
(  4)  La P38 e' solo un'illusione, 44 magnum e' la dimostrazione  [per  la
rivoluzione].
( 5)  Te ne vaje o no, te ne vaje si o no?
(  6)   Fuori  i fascisti anche dalle fogne,  violenza  proletaria  [rossa]
contro le carogne.
( 7)  Strage di Stato, Pinelli assassinato.
( 8)  Il pro-le-ta-ria-to non ha na-zio-ne/  in-ter-na-zio-na-li-smo-ri-vo-
lu-zio-ne (11+12).
(  9)   La disoccupazione ti ha dato un bel mestiere (1a  parte),  mestiere
dimerda carabiniere (2a).
(10)   Su, su, su i prezzi vanno su (1a parte), prendiamoci la roba  e  non
paghiamo piu' (2a).
(11)  Yankee Go Home.
(12)  Il leggendario "Ce n'est qu'un de'but continuons le combat" e le  sue
tragiche versioni: Se non cambiera', lotta dura sara'. No, no, non si puo',
andare avanti cosi'.
(13)  El pueblo, unido, jamas sera' vencido [el pueblo armado, jamas  sera'
matado].
(14)   Giap,  Giap, Ho-Chi-Min; Viva Marx, Viva  Lenin,  Viva  Mao-Tze-Tung
[Viva Gramsci e Togliatti].
(15)  Bakunin, Kropotkin, Ma-la-te-sta [Proudhon, Bakunin, Ma-la-te-sta].
(16)  E'ora, e' ora, e' ora di cambiare: il pci deve governare  [comandare,
sic!].
(17)  E'ora, e' ora, e' ora di cambiare: la dc se ne deve andare.
(18)  E'ora, e' ora, potere [governo] alla malora (vedi nota 2).
(19)  Almirante boia.
(20)  Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi.
(21)  Champagne-Molotov.
(22)   Potere  a chi lavora (ancora!); utilizzato per la  re'clame  di  una
macchina da ufficio.
(24)  Intramontabili quelli sulla falsariga del francese sopra citato.

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La lingua langue ^^^^^^^^^^^^^^^^^
la  lingua  langue,  ora  e' primadonna l'immagine. la  lettura  e'  per  i
curiosi,  di stato d'animo differente dai guardoni, se gli si  consente  di
avere  libri  e  tempo. l'ascolto e la  visione,  altrimenti.  veicolo:  la
televisione.  la televisione e' sacra: "sacro" significa "separato". e'  lo
strumento  sacrificale che prende su di se' i peccati del mondo,  tutte  le
colpe, tutte le noie, tutte le responsabilita', la tv, quest'oggetto sempre
separato da noi dalla distanza d'utenza, e' il mezzo della nostra latitante
redenzione  dall'isolamento, e lo strumento della nostra separazione  dalla
viva realta' del mondo.
"Lode  a Te, Signore, per la televisione. Questa cattedra che si  pone  nel
cuore di ogni casa non turbi, ma alimenti l'armonia della famiglia, prepari
uomini nuovi per un mondo nuovo fondato sul tuo Vangelo". Cosa c'e'  dunque
dentro  questo  contenitore  d'immagine?  La somma  di  tutto  il  pensiero
qualunquista,  di tutto l'imperialismo che ha guidato con ferma  intenzione
il progresso tecnologico. La Tv e' appunto uno strumento, e come tale serve
l'anima del Capitalismo che va alla ricerca di un generalizzato dominio sul
Mondo,  come  religiosamente spiega la "Lode al Signore per  gli  strumenti
della comunicazione sociale". Come strumento che induce alla passivita', la
Tv  e' di gran lunga piu' idonea a distribuire messaggi analgesici e  falsi
che  la verita'. l'ascolto attivo di programmi radiofonici parlati e'  gia'
acculturazione, segno di volonta', la televisione e' invece trance  visiva.
dagli  occhi  l'ipnotismo, una stasi nervosa composta da diversi  stadi  si
trasmette  al  cervello.  ecco:  vi  e'  la  sonnolenza,  il  rilassamento,
l'erotizzazione, lo scaturire di una voglia, la individuazione di un nemico
in  un  soggetto televisivo, l'eccitazione nervosa e lo stimolo  a  colpire
mentalmente  il  bersaglio, supportato da suoni. l'uccisione  e'  il  primo
comandamento  applicato in televisione: cio' che non si puo' prendere  deve
sparire, il nemico, l'oggetto desiderato e imprendibile. la virtualita'  e'
pericolosa  perche' nasce dalle esigenze di un sistema sociale  e  politico
totalmente  imperialista,  possessivo, con la nevrosi del  NULLA.  Ad  ogni
offerta  di oggetti desiderabili percio' equivale un riscatto  di  delitti,
uccisioni  ed esplosioni dell'istinto di morte. La solita storia di Eros  e
Thanatos. Viene attuata una scelta, anche se non sempre accurata, di coloro
che  possono  dirigere/descrivere  i  desideri;  innanzitutto,  che   siano
personaggi  la  cui prima proprieta' sia di possedere  diverse  culture  ma
nessuna profondamente: perche' il loro mestiere sara' riunire tutti per  un
racconto  superficiale  e  fasullo  delle  emozioni,  dei  desideri,  della
politica, delle culture. La tv racconta la vita come i documentari di  Walt
Disney:  montandola. La ricerca di episodi cruenti dal vivo  e'  affannata:
rendono  piu' credibile il lavoro di montaggio complessivo della  falsita'.
Definizione  di fasullo: il criterio principale e' quello di riunire  sotto
un  unico  indice d'ascolto le masse; per far cio' si  deve  sempre  essere
accattivanti. e' accattivante cio' che presenta l'utente come protagonista,
il  "media" deve mediare, fare la media per offrire sempre un prodotto  che
risulti  confortante  per  i bisogni del "vedente medio":  amore,  soldi  e
potere,  considerazione e' possibile soddisfare direttamente a dei  bisogni
(giochi,  quiz ecc.) e indirettamente (telenovelas, squadra omicidi  ecc.).
Quindi,  i desideri dei "produttori", quasi tutti uomini (per  non  parlare
dei pubblicitari) cadono come un boomerang sul pubblico femminile della tv,
sciorinando  maschilismo,  e produzioni del tutto  improntate  ai  desideri
dell'utente maschio medio. La politica e' riprodotta con gli stessi intenti
di  normalizzazione:  e  in ogni programma, da quello per  bambini  al  tg,
passera'   la   piu'  coerente  pubblicita'  del  tradizionalismo   e   del
qualunquismo.  Mostri,  martiri, eroi, sono figurine.  Ecco,  il  cavaliere
bianco  sulla sua lapide ancora galoppa: e sembra essere facile preda,  per
nuove  arringhe,  degli uomini della destra in cerca di nuovi  simboli  del
loro  inesistente  bisogno di giustizia sociale. Cosi', i morti  per  mafia
spesso  divengono  applaudito  tema di discorsi dei gruppi  e  dei  leaders
politici della destra italiana, che li usano per incitare alla  distruzione
di un sistema politico ad essi incongruo (la fantomatica "democrazia").  La
tv  permette  l'amplificazione di questi tentativi  di  strumentalizzazione
infinitamente piu' che la diffusione di messaggi e documenti di verita' sui
fatti: per dire la verita', basta poco, per contraffarla invece sono  molto
piu' utili e necessarie le tecnologie. Vi sono dei maghi che hanno assoluto
bisogno della tv per rendere possibili i loro trucchi. La lingua si  adatta
bene  alla contraffazione della realta' supportata da immagini:  giovandosi
di  frequenti  ripetizioni,  di parole dai  molteplici  e  spesso  contrari
significati,  della sparizione di un preciso soggetto. Percio'  l'americano
e' una perfetta lingua imperialista: permette di inculcare luoghi comuni  e
direttive  con  efficacia, e di far perdere nel  nulla  la  responsabilita'
delle  azioni.  "E pluribus unum". Dai molti uno solo: un solo  Stato,  una
sola  lingua. E un solo sesso. Senza la coscienza di  questa  monoliticita'
degli  intenti  comunicativi,  ancheil  "ritorno"  all'uso  dei   linguaggi
popolari e regionali, da' luogo ad un'infinita' di luoghi comuni e  vecchie
storie,  il cui "pregio" risulta essere solo quello di risultare  ora  meno
comprensibili;  eppure,  la  lingua  regionale  puo'  scoprire  una  grande
dolcezza  nei  contenuti  (la  vicinanza  alla  terra,  un  rapporto   meno
espropriante  con le cose). Una dolcezza che non "lega", e che di  per  se'
vale   tanto  per  chi  puo'  assaporarla.  La  mia   generazione,   spesso
impossibilitata  a fruire i dialetti per ovvi motivi, ha anche inventato  o
"recuperato"  tecniche di comunicazione basate sul doppio, triplo  senso...
sulle  associazioni di pensiero: gli esperimenti che attuiamo  col  Groucho
Marxismo  (abbondantemente  fluiti, anche se in peggio,  su  "Cuore")  sono
tutti  tentativi  di  spezzare  la "unicita'" di senso  e  di  "sesso"  del
linguaggio. L'uso di piu' lingue, di piu' piani interpretativi, permettera'
un  ampliamento infinito di queste tecniche. La conoscenza di  piu'  lingue
permettera' di confrontare i "retroterra" delle parole: ogni parola esprime
qualcosa  di  diverso,  e ha un "inconscio" diverso  da  lingua  a  lingua;
studiare  piu' lingue con questo tipo di interesse permette una  conoscenza
Disordinatamente  Mondiale  dei linguaggi. Oltrettutto,  come  saprete,  la
conoscenza  dei meccanismi grammaticali e dei significati di  piu'  lingue,
apre nel cervello l'uso di "settori" altrimenti, diciamo cosi', "VUOTI":  e
non  collegati tra loro. "Divide et impera", dividi e regna, ecco  un'altra
massima cara al pensiero del Nuovo Ordine Mondiale:

l'applicazione meticolosa e fantasiosa, per creare un sistema di  linguaggi
inter-reattivi e creativi, ha gia' una base nel lavoro giornaliero di tutti
glianarchici  e  di  libertari  che  di  paese  in  paese  comunicano,   si
"traducono',   si  scambiano  culture.  In  questo  senso,  il  lavoro   di
collegamento e di coordinamento tra noi e' prezioso, prezioso anche per chi
fa l'artigiano della parola e "coltiva la propria poesia": prezioso per noi
che,   legate/i   alla  politica  saldamente,  facciamo   poesia,   teatro,
comicita'...,  la  nostra  reale  e concreta  "realta'  virtuale"  che  non
necessita  di assoggettamento all'anagrafe elettrica ne' alla Siae.  Questi
sono  "tempi  di pentimenti" e conversioni, anche il peggiore  mercante  di
emozioni ci tiene a far sapere in giro che legge la Bibbia e possiede un' -
anima-.  Le piu' moderne tecnologie della comunicazione sono al servizio  e
calzano  perfettamente a questi parlatori del riverbero, a questi  mercanti
del soft-ware emotivo, a questi teatranti della Trasgressione  catartica...
la  lingua  langue,  l'ugola e' uggiosa, uggiola e guaisce e  il  gergo  da
gendarme la lambisce la svilisce la oscura.

dada knorr

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Lo slogan organico
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Il rap imperversa. Anzi, ormai e' da un po' che imperversa. Di piu': il rap
e' la musica "nostra". E' la colonna sonora dei Centri Sociali, delle feste
"alternative", delle manifestazioni e anche delle trasmissioni "giuste"  di
Rai3,  naturalmente.  La  storia la conosciamo bene.  Il  mito,  ormai,  e'
assodato:  il paio di microfoni e il giradischi che bastano per mettere  su
un  gruppo  (il rap e' la musica povera), gli scantinati dei  CSA  da  dove
spuntano  le  posse e i camioncini che le portano nelle piazze  d'Italia  a
urlare  la  nostra  rabbia (il rap e' antagonista),  che  non  serve  saper
leggere la musica e neanche saper suonare un bricinino (il rap e' il  nuovo
punk, e' piu' punk del punk). E via cantando. Meglio: via scandendo.
All'inizio  (e anche fino a noi) Il rap non e' idea particolarmente  nuova.
Nella  tradizione  della  musica  nera l'uso della  voce  non  cantata,  ma
scandita  o  piu' raramente recitata e' sempre stato presente,  almeno  dai
"talking  blues" in poi. E', pero', solo a partire dagli anni '60  che,  in
Giamaica,  parallelamente alla diffusione del reggae e delle  grandi  feste
all'aperto a base di dischi (senza una band che suona), nasce un nuovo tipo
di disc-jockey che non si limita a mettere su le canzoni una dopo  l'altra,
ma le mixa, ci parla sopra, ci recita anche (il "dub"), muove il disco  sul
piatto con le dita e aumenta o diminuisce la sua velocita' (lo  "scratch").
Questo  nuovo stile viene chiamato "cut'n'mix" e delinea una  nuova  figura
del  dj che, se non e' ancora certamente un musicista, non e' piu'  neanche
solo  un  tramite  passivo  della musica altrui.  Come  scrive  il  critico
musicale  inglese Dick Hobdige "la concezione del cut'n'mix prevede che  un
suono  o  un ritmo non appartenga a nessuno: il suono lo si usa, lo  si  fa
ascoltare alla gente, lo si propone in mille modi diversi". Il "dub"  entra
cosi'  a far parte di quell'immenso filone d'oro (sonoro) che e' la  reggae
music.  E  dopo i dj, imparano presto ad usarlo i poeti  (gli  esempi  piu'
famosi sono U Roy e Linton Kwesi Johnson) e anche i militanti che, dubbando
abilmente,  mescolano musica danzante e messaggi politici. Il nuovo  stile,
dopo  essersi  diffuso  rapidamente  dalla  Giamaica  ai  quartieri   degli
immigrati di colore in Gran Bretagna, inizia ad arrivare anche negli USA  a
partire dalla meta' degli anni '70. La leggenda narra che a portarvelo  sia
stato un dj giamaicano, Kool Herc, che nel '67 si trasferi' a New York.
La  situazione inglese-giamaicana e quella americana, comunque,  erano  ben
diverse.  Nell'ambito  del  reggae, infatti,  musicista  e  ascoltatore  si
situano  entrambi in un contesto culturale fortemente riconoscibile  e  ben
connotato   sia   a   livello  politico  che  a   livello   religioso   (il
rastafarianesimo)  e  l'iconografia  dell'artista e'  quella  del  perfetto
rastaman  che puo' avere eventualmente degli aspetti di guida spirituale  o
di  profeta,  ma  non certo di un uomo ricco o di  successo  (anche  quando
sfonda tra i bianchi: basti pensare a Bob Marley). La distanza invece,  tra
le superstars della musica nera statunitense ed il loro pubblico e'  invece
ben piu' marcato: gli Chic, gli Earth Wind and Fire, Donna Summer ostentano
auto  di lusso e case faraoniche, frequentano il jet-set dei "bianchi",  il
segno  della loro popolarita' e' fin troppo evidentemente nella  ricchezza.
Il cut'n'mix diventa, cosi', uno strumento di riappropriazione dei ritmi  e
delle  melodie  funky  e  disco e parlare  sui  brani  significa  metterci,
innanzitutto,  il  proprio segno (il proprio quarto d'ora  di  celebrita'),
indipendentemente  da quel che si dice. E, all'inizio, spesso non  si  dice
altro che di ballare e di far l'amore (due ottime idee, peraltro). La nuova
scena  "rap" o "hip hop" e', sin dal principio, molto frantumata:  i  primi
due rappers di successo, Grandmaster Flash e Afrika Bambaata, si presentano
rispettivamente  come  una  specie di demonio sessuale  e  un  caritatevole
profeta del ritorno all'africanita'. Le cose, comunque, iniziano a cambiare
nell'84/85  quando  gruppi rap come i Run DMC (con la versione  rappata  di
"Walk on this way" dei bianchissimi Aerosmith) e i Beaste Boys iniziano  ad
avere  successo  anche  tra i bianchi (e non solo tra  i  frequentatori  di
discoteche)  e  le frequenti retate antidroga della polizia  nei  quartieri
neri  portano ad un intensificarsi dell'attivita' delle gang  e,  comunque,
della  rabbia  generale dei giovani di colore contro il  potere  bianco.  A
differenza  di  quanto  era  accaduto in Giamaica  ed  in  Inghilterra,  il
malcontento e l'estraneita' non si organizzano in altre forme che in quelle
disperate  delle  gangs o dei Musulmani Neri e il filone del rap  che  puo'
essere  definito  "militante" (quello di IceT e dei Public  Enemy)  esprime
piu'  una  generica  ribellione contro un potere non  meglio  definito  che
istanze  radicali  e rivoluzionarie e lo stesso "orgoglio  nero"  assume  i
contorni,  talvolta,  di una sorta di razzismo alla rovescia,  rivolto  non
tanto  verso  i bianchi quanto verso altre minoranze come gli ebrei  o  gli
asiatici. Eppure, per quanto questo filone sia minoritario nel rap rispetto
alla  miriade di gruppi che invocano soprattutto sesso&soldi  facili,  esso
incontra  il  favore dei giovani bianchi europei e statunitensi  che,  dopo
lunghi  anni  di fredda new wave e di rock revivalistico, salutano  il  rap
come  la "musica del momento". Se, pero', negli Stati Uniti il  rap  rimane
sostanzialmente  una "musica da neri" e i pochi rappers bianchi si  muovono
quasi  esclusivamente  sul bieco commerciale,in Europa iniziano  a  sorgere
sempre piu' spesso gruppi rap che usano la propria lingua.
Il   rap  italiano  (un'altra  storia)  Rappare  (scandire  velocemente   e
chiaramente  parole  sulla  base di un ritmo  ossessivo)  e'  divertente  e
interessante  e, soprattutto, e' facile da fare e da condividere.  Il  rap,
quindi,  entra innanzitutto come linguaggio, che viene usato  dapprima  dai
disc-jockey, ma di cui comunque e' semplice impadronirsi. Nel movimento  il
rap  arriva  subito, alle radio libere e anche nei cortei, non  solo  nelle
grandi  citta'  (indimenticabile la rapper dell'Assemblea  Permanente  alle
manifestazioni  contro  la Farmoplant di Massa), a  partire  dalla  seconda
meta'  degli anni '80. E' tuttavia solo con il successo dei Public Enemy  e
del film "Fa' la cosa giusta" che inizia a venir fuori quel che si dice "il
rap  italiano".  Dovendo situarne un punto di diffusione,  lo  si  potrebbe
forse trovare in alcuni Centri Sociali (quasi esclusivamente urbani)  prima
e  poi  nel velocissimo movimento studentesco del '90, la  celebre  Pantera
(che  non  a caso gia' si chiamava "pantera"), alle  feste  nelle  facolta'
occupate,   dov'era   improbabile   riuscire   a   portare   un    impianto
d'amplificazione per far suonare un gruppo vero. La produzione discografica
inizia  ben presto: il disco dell'Onda Rossa Posse e' della  primavera  del
'90.  Il primo pezzo che s'inizia a sentire in giro, e non soloin  ambienti
alternativi,  e' "Stop al panico" dell'Isola All Stars Posse,  un  prodotto
collettivo contro la guerra nel Golfo fatto dai rappers che ruotano intorno
all'Isola  nel  Cantiere  di Bologna. Pochi mesi dopo i  Sud  Sound  System
inaugurano alla grande la stagione del ragamuffin' (una specie di rap  piu'
melodico,  fatto  su  basi reggae o comunque non esagitate)  con  il  brano
"Fuecu".  E qui inizia la leggenda. I Sud Sound System iniziano ad  entrare
nella  programmazione  estiva  delle discoteche, le  riviste  musicali  (in
particolare  Rockerilla e la gia' defunta Velvet) dedicano largo spazio  al
rap  nostrano  e  c'e'  anche  un  giornalista  de  il  manifesto,  Alberto
Piccinini,  che  inizia  a fare una serie  impressionante  di  articoli  su
qualunque roba avesse a vedere con le posse. In breve tempo, i primi gruppi
rap  militanti  iniziano  ad  apparire su Rai3 sulle  furbe  "la  tv  delle
ragazze"  ed "Avanzi" e anche la Repubblica e King "scoprono"  il  fenomeno
che arriva velocemente un po' dappertutto. La leggenda del rap suona piu' o
meno cosi': il rap e' la musica del momento, e' roba alternativa che  viene
dai  Centri  Sociali  (che e' meglio non precisare  cosa  sono,  che  sulle
riviste   patinate  non  sta  bene),  che  viene  prodotta   da   etichette
autogestite,  che viene suonata da giovani d'estrema  sinistra  (autonomi?)
giustamente  arrabbiati  con il mondo (che tanto ormai va  bene  che  siamo
incazzati tutti, senno' di Pietro che ci fa?). La leggenda suona buffa, con
un minimo di conoscenza della cosa. Banalmente, per dirne una, il rap  come
"musica dei Centri Sociali" e' un po' improbabile da spacciare a  qualunque
frequentatore  di un CSA che sa bene che per ogni posse che fa le prove  in
un centro sociale ci sono almeno cinque gruppi rock e per ogni concerto rap
ci sono almeno dieci concerti di musica suonata. Il rap, casomai, esce piu'
fuori dai Centri Sociali, alle feste ed alle manifestazioni, ma anche nelle
discoteche  "alternative"  (che, dopo anni, stanno riavendo un boom)  e  in
radio  e in tv, pure. E anche la storia dell'autoproduzione regge poco:  se
e'  vero  che alcune posse (poche) si fanno in casa le  cassette,  e'  vero
anche  che  la  maggior  parte  dei dischi  sono  stati  prodotti  da  case
discografiche  di  proprieta'  magari  di  "amici"  o  "simpatizzanti",  ma
comunque gia' al di fuori di un contesto di autoproduzione militante,  come
potrebbe  essere  quello del circuito anarcopunk. La  leggenda,  piuttosto,
dice  molto in se' ed e' interessante per come, ad esempio, fa diventare  i
Centri  Sociali che appaiono come una specie di club di urlatori e  di  dj,
senza  far trasparire nulla o quasi delle dinamiche, delle storie  e  delle
lotte degli spazi autogestiti. E dice molto anche sul rap, il fatto che  vi
sia  una leggenda "ufficiale". Il rap e' facile. E qui ci sta tutta la  sua
debolezza  e  tutta la sua forza: e' uno strumento utile  e  simpatico  per
comunicare,  si puo' prendere il microfono anche con poca maestria,  ma  si
riesce a dire poco ed e' comunque difficile dire qualcosa di nuovo. Dove si
finisce, e' facilmente sul gia' detto che e' piu' semplice da far capire  e
che,  pero', finisce facilmente nell'innocuo. Lo slogan, ritmato,  con  una
base  musicale simpatica, in una discoteca di tendenza o nello spazio  rock
di   una  trasmissione  televisiva  non  fa'  molta  piu'  paura   di   una
manifestazione  vista al telegiornale. "Trent'anni di rock'n'roll ci  hanno
insegnato a distinguere chi abbaia e chi morde" ha detto, un paio di lustri
fa, Abbie Hoffmann. Augh!
Peter P.

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Sintonie
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Impossibile  scorrere  una gazzetta qualsiasi, di non importa  che  giorno,
mese  o  anno, senza trovarvi, a ogni riga, i segni della  piu'  spaventosa
perversita'  umana  e,  in pari tempo, le  piu'  stupefacenti  vanterie  di
probita', di bonta', di carita', e le piu' sfrontate affermazioni  riguardo
al  progresso e alla civilta'. Ogni giornale, dalla prima all'ultima  riga,
non  e'  che  un contesto d'orrori. Guerre,  delitti,  furti,  impudicizie,
torture, delitti dei principi, crimini delle nazioni, delitti dei  privati,
un'ebrezza  d'atrocita'  universale.  E con  questo  disgustante  aperitivo
l'uomo  civile  accompagna il suo pasto d'ogni mattina.  Tutto,  in  questo
mondo,  trasuda  il delitto: il giornale, i muri eil volto  dell'uomo.  Non
capisco come una mano pura possa toccare un giornale senza una  convulsione
di disgusto.
Charles Baudelaire

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Gocce
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Cose  buone dal mondo. La resurrezione di Cyborg (mensile, 100 pagine  lire
5000)  deve  essere accolta come merita, con gli auguri per una  vita  piu'
lunga  e gioiosa della precedente. Nella nuova serie troviamo  autori  gia'
noti e rubriche di musica e comunicazione; buono l'esordio di Ramarro e  le
nuove  avventure  della Fondazione Babele, scontata la qualita'  di  Helter
Skelter.  Dignitose  le  altre storie, anche se non  siamo  dei  fan  dello
splatterpunk.  Tra  le  contraddizioni, una ci  sembra  vada  sottolineata:
mentre  viene  dato  ancora  ampio  spazio  alla  pratica  e  alla   teoria
dell'hackeraggio  sociale, vale a dire al fatto che le informazioni  devono
servizio -a pagamento- su videotel, vero e proprio campo di battaglia degli
hacker italiani. Masochismo? Ci sembra inoltre che resti il solito problema
della  puntualita'  nelle  uscite (a gennaio era in edicola  il  numero  di
dicembre) che ancora una volta sembra un problema insormontabile. Una  nota
stonata e' invece la pretesa di farci ritagliare un pezzo della rivista per
partecipare ad un concorso a premi per tutti, ma forse e' solo un tentativo
di  farci  acquistare  un'altra  copia  del  giornale,  solleticandoci  con
l'intrigante fumetto in regalo. Una agendina in regalo col primo numero. Un
albo nel numero 2.
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Ricordi boia. A noi di rAn la retorica non piace, ma ancor meno la censura;
cosi'  dobbiamo parlare del film "Sacco e Vanzetti" (di Giuliano  Montaldo,
1971), nella nuova versione home-video della Ricordi in vendita anche nelle
edicole   a  prezzo  popolare,  gia'  a  suo  tempo  commercializzata   con
l'etichetta  "Videogroup - Roxy Video". Nonostante l'A cerchiata  in  bella
mostra, la videocassetta e' la versione del film censurata dalla RAI, senza
la  frase  finale "Viva l'Anarchia", storicamente pronunciata  da  Vanzetti
sulla  sedia  elettrica  (come  attestato  dai  verbali  dei  suoi   boia).
Meraviglia  che  il Centro Studi Libertari di Milano,  pur  rilevando  tale
taglio  (vedi  Umanita' Nova n.2, 17/1/93), abbia deciso  di  rivenderlo  e
farne omaggio ai propri soci.
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Mario  Lorenzini.  La  sua  morte ha rattristato molti  e  molti  lo  hanno
ricordato come compagno, comunista, anarchico, sempre presente nelle  lotte
sociali,  ecc. Tutte cose innegabili, ma qui ci piace rimpiangerlo  proprio
per  l'aspetto piu' contraddittorio della sua umanita', su cui tutti  hanno
preferito  sorvolare;  Mario raccontava delle balle terribili.  Si,  balle,
panzane,  frottole  inaudite, a cui lui stesso finiva per  credere,  su  un
passato  di  scontri  di piazza, molotov, antifascismo  militante  e  amore
libero.  Mario quelle cose le aveve vissute davvero, in prima persona,  per
cui  non  aveva certo bisogno di inventarsi dei  precedenti  per  personale
vanagloria;  eppure  sembrava non resistere alla  tentazione  di  costruire
delle   autentiche  leggende  metropolitane  attorno  a  fatti  e   persone
dell'amato  Movimento  che, attraverso le sue parole, appariva  ancor  piu'
straordinario.  Leggende  metropolitane col sapore salmastro  delle  storie
narrate  dai  vecchi  marinai di cui Mario,  oltre  all'aspetto,  aveva  la
passione  per il navigare a vela. Sicuramente, per lui, la verita' non  era
sempre rivoluzionaria; eppure anche nelle sue bugie piu' surreali non c'era
meno  realta' che in certe ricostruzioni stile "Formidabili  quegli  anni",
scritte da personaggi che, al contrario di lui, l'eskimo l'avevano  buttato
via  da tempo. Per questo, anche se non sempre c'era la voglia di stare  ad
ascoltarle, le balle di "Simbad" ci mancheranno.
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Suggerimenti.   "In   seguito  al  successo  e  alla  diffusione   che   le
fotocopiatrici  a  colori  hanno conquistato, ma soprattutto  per  le  loro
straordinarie  prestazioni,  che permettono di ottenere copie  identiche  a
qualsiasi  tipo  di originale, tali macchine hanno  sollevato  il  problema
della  sicurezza"  (Computer,  XVIII, 500,  27/1/93).  Questo  e'  l'inizio
dell'articolo   nel   quale   si  annuncia   una   nuova   generazione   di
fotocopiatrici,  capaci di "marcare" le copie fatte in modo che da esse  si
possa risalire alla macchina che le ha prodotte, e in grado di  riconoscere
le  banconote:  "la  fotocopiatrice  riconosce  una  banconota   registrata
precedentemente  in  memoria e ne impedisce la  duplicazione"  producendone
"una  copia  sfuocata". L'intento pubblicitario dell'articolo  e'  evidente
(per  ora  le  produce solo una grossa multinazionale  giapponese);  se  la
pubblicita' dicesse la verita', allora vorrebbe dire che ci sono ancora  in
giro macchine capaci di moltiplicare la cartamoneta. WOW!
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A prova di orrore. Nessun esperto ha ancora fornito spiegazioni sul missile
"cruise" , made in USA (anzi, Florida), che ha semidistrutto l'Hotel Rashid
a  Bagdad, sede degli inviati speciali della stampa estera e  delle  troupe
televisive  occidentali,  specialmente  yankee. Infatti,  pur  senza  avere
particolare fiducia nella supertecnologia delle bombe "intelligenti", 20 km
di  errore  rispetto all'obiettivo (sui 50  metri  reclamizzati!)  appaiono
davvero troppi. Allora proviamo noi a formulare alcune ipotesi a  riguardo.
La  piu' incredibile, con buona approssimazione, e' la piu'  veritiera.  A.
Non  e' stato un errore. Nel '91 ai tempi della guerra del Golfo,  qualcuno
osservo' che le parti in conflitto erano 3: USA, IRAQ e CNN. Gia', la  CNN,
ossia la potentissima emittente americana che con i suoi servizi, trasmessi
proprio dal Rashid, fece "vedere" in diretta il bombardamento di Bagdad. B.
E'  stata  la  mano di Allah. C. Si tratta di  una  montatura  dei  servizi
segreti  di Saddam, in combutta con la CBS che ha venduto a mezzo mondo  le
immagini  dell'esplosione, fregando la concorrenza. D. Gli  Americani  sono
talmente jellati che farebbero meglio ad arrendersi.
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E a Noi? Il nuovo prodotto stampato di Berlusconi e' finalmente comparso in
tutte le edicole nel suo specchiato splendore. Una rapida occhiata e ci  si
rende  conto  che  si tratta di una assoluta novita'  editoriale,  con  una
grafica agile e moderna e collaboratori di gran fama. Pregevole e'  infatti
il  pool degli opinion maker: Montanelli, Cossiga, Gorbaciov, Verde,  Mina,
come  dire  il  gotha della cultura alternativa  italiana.  Di  particolare
rilievo  i  protagonisti  dei principali servizi del  numero  uno  che  ben
descrivono  la linea editoriale del settimanale: Di Pietro, Carlo &  Diana,
Bossi,  Pippo  & Katia, Nureyev, Clinton, ecc. accanto  a  Roberto  Blundo,
Carlo   D'Andrea,  Vincenzo  Abate,  ecc.  Assolutamente  da  non   perdere
l'apparato iconografico: Di Pietro che uccide una talpa a colpi di sandalo,
Bossi  quando  imitava  Don  Backy,  Greta  Garbo  (?)   nuda.  Il   nostro
particolare  plauso va al servizio sulle cinque suore che "accudiscono"  il
papa  ed  alla piantina dell'appartamento di sua santita',  di  particolare
utilita' nel caso uno di noi si perda nei meandri vaticani. La crisi in cui
verserebbero (vedi "L'Espresso" del 17/1/93) i settimanali nazionalpopolari
non giustificherebbe una nuova testata, ma l'unica incongruenza che abbiamo
trovato nel nuovo settimanale e' proprio nel suo nome: meglio sarebbe stato
chiamarlo Essi.

La  prima  constatazione e' che gli oppositori nel  produrre  comunicazione
usano  schemi  propri della stampa borghese o  riformista,  senza  rendersi
conto   che   certe  strutture  formali  dell'informazione   scritta   sono
espressione e strumento dell'ideologia autoritaria, rispondenti ad una  ben
precisa  visione  del mondo. Cosi', piu' o meno  consciamente,  quando  dei
rivoluzionari  "inventano"  un giornale in realta' creano la  versione  "di
sinistra"  di una testata di regime (per molto tempo, ad esempio,  Umanita'
Nova  ha  ricalcato  l'impostazione de la Repubblica,  almeno  nella  prima
pagina). In tale ambito, l'immagine ha gia' il destino segnato, al servizio
del  testo  scritto o come tappabuchi. Dal '77 ad oggi sono state  rare  le
eccezioni  alla  regola:  Zut-A/traverso,  Skizzo,  Insurrezione,  Vuoto  a
perdere; qualche pagina di Autonomia, Provocazione, Collegamenti-Wobbly, il
manifesto  e  poco  altro. Un'immagine puo' essere  inedita  o  d'archivio,
d'attualita'  o storica, tecnicamente perfetta o dilettantistica,  ma  deve
avere  una  sua indipendenza e un suo spazio adeguato,  altrimenti  la  sua
presenza e' del tutto ininfluente per la comunicazione. Specialmente in una
prima  pagina  o  in una copertina deve essere in grado  di  stabilire  una
sintonia tra il giornale e il destinatario, attualmente invece ben di  rado
un'immagine d'apertura di un giornale rivoluzionario rimane impressa  nella
nostra memoria, segno che si stenta a trasmettere una qualche emozione;  ma
viene  anche  il  dubbio  che  ci sia un  pudore  eccessivo  per  i  nostri
sentimenti,  le  nostre pulsioni, col risultato che i  fogli  "alternativi"
appaiono  tutti  ugualmente smorti e cupi, anche se  in  quadricromia.  Gli
anarchici,  in  particolare, riescono ad essere  "invisibili"  anche  sulla
propria stampa. In Italia nonostante qualche crisi, e' ancora ben forte  il
predominio culturale della Parola ma specie sul piano della critica sociale
mostra  una  sua  crescente perdita d'efficacia  "eversiva"  in  quanto  il
discorso    rivoluzionario   somiglia   terribilmente   a   quello    della
normalizzazione,  perbenisticamente  diffidente verso  possibili  attentati
all'estetica  della mediocrita'. Nella comunicazione sociale emerge  invece
la  necessita'  di un intelligente estremismo che  faccia  scontrare  sulla
carta   come  sui  muri  diversi  codici  espressivi,  per  provocare   nel
destinatario  una loro fruizione simultanea e senza gerarchie. E  per  fare
questo non c'e' bisogno di professionisti o di artisti, ma di sovversivi in
carne  ed  ossa  con  la voglia di  divertirsi  comunicando  attraverso  il
saccheggio e la destrutturazione dell'immagine dominante. "Ogni pagina deve
essere  un'esplosione  di serieta', profonda e grave, o di  rivolta,  o  di
cattiveria,  o di cose nuove o eterne, o di stupidita' distruttrice,  o  di
entusiamo  per  i principn o per il modo in cui essa viene  stampata."  (F.
Picabia) Jean Rabe

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Gocce
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La  fanta-satira-politica e' un genere nel quale Stefano Disegni e  Massimo
Caviglia  hanno gia' dimostrato di trovarsi a proprio agio, e questo li  ha
portati  nel lu glio scorso a sfornare Razzi Amari . Un racconto a  fumetti
con una musicassetta allegata sulla quale sono incise le canzoni che  fanno
da  "colonna  sonora" all'albo. L'idea di ascoltare canzoni inedite  i  cui
testi sono parte integrante del fumetto e' buona a patto di non  pretendere
arrangiamenti  da  Beatles o disegni alla Alex Raymond. La  storia  non  e'
delle   piu'  originali,  una  insalata  mista   derivata   dall'abbondante
letteratura della fantascienza sociologica sul tema delle distopie  (utopie
negative),  con  una  spruzzata  di cyberpunk che va  tanto  di  moda;  ma,
comunque,  la storia regge anche grazie alla novita' della  colonna  sonora
allegata.  La  cosa  piu' antipatica che  abbiamo  riscontrato  nel  tutto,
volendo  trovare  un  pelo nell'uovo, riguarda la non  concordanza  tra  il
cantato  e lo scritto, cosa alquanto normale come puo' confermare  chiunque
abbia  cercato di seguire una canzone leggendone il testo  sulla  copertina
dell'album.  Ma,  nel nostro caso, non si tratta  solo  di  "aggiustamenti"
letterari,  infatti  nel  brano n.6, Tutta colpa dei  babbuini,  la  strofa
"originale"  era:  "...non  bastavano il papa  ed  i  socialisti,  l'ozono,
Andreotti  ed  i  razzisti..." che, nella  canzone,  e'  diventata  "...non
bastavano Andreotti ed i socialisti, l'ozono, Pippo Baudo ed i razzisti..."
con un papa in meno e un pippobaudo in piu'. Non sappiamo se la censura sia
stata  consigliata  dall'Editore o da una eccessiva cautela  degli  autori,
fatto sta che c'e' stata. Peccato.
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La  storia recente del rock e'  piena
delle  cosiddette  "reunions",  ossia del ritorno  sulle  scene  di  gruppi
scomparsi  da tempo (tra gli altri, negli ultimi anni Deep  Purple,  CSN&Y,
Yes):  trattasi normalmente di storie tristi e un po' squallide di  vecchie
cariatidi  che riprendono a suonare con poca voglia se non di  quattrini  e
destinate  a  breve  durata.  Una  sorta di  reunion,  ma  in  altro  campo
(editoriale)  e dai risultati molto diversi, e' stata quella  di  "Insekten
Sekte", storica rivista sotterranea milanese (1970/1975) che ha ripreso  le
pubblicazioni  nel  1988. Regolare nelle uscite (naturalmente  solstizi  ed
equinozi), ma assai mutevole in forme e contenuti, dopo un primo periodo in
formato  poster  ed un altro in formato A4, "I.S." s'e' ristretta,  sino  a
diventare piu' piccola di rAn. Il piatto forte (e unico) degli ultimi tempi
e'  costituito  dalla  pubblicazione degli inediti  di  Matteo  Guarnaccia,
corresponsabile  della Setta degli Insetti assieme a Gigi Marinoni. Con  le
sue  tipiche  figurine "dolci e stralunate" e il piacevole caos  delle  sue
tavole  piene  di oggetti e personaggi sorridenti, Matteo  (gia'  noto  per
l'indimenticabile albo a fumetti su Jimi Hendrix edito dal "Rolling  Stone"
italiano) e' sicuramente uno dei disegnatori e narratori per immagini  piu'
dotati della penisola, con un suo tratto originalissimo a meta' strada  tra
la linea chiara e gli under comix. Nell'ultimo "Insekten" (n.35) si possono
ammirare  le  sue doti in "Maghi", raccolta di ritratti e  brevi  note  del
gruppo dei fattucchieri piu' strampalati mai visti, che con strani  funghi,
piante  di cannabis e poi folletti, Oriente preso a cuor leggero  ed  altre
stranezze  ancora, rievoca suggestioni nettamente psichedeliche e mette  in
rilievo ancora una volta l'originalita' creativa e la vocazione cosmopolita
degli artisti underground italiani. E vedere che un'opera di cosi'  elevato
valore  stilistico  sia sulle pagine di una fanza autoprodotta  invece  che
sulla  carta  patinata di qualche rivista fa comunque bene  al  cuore.  Per
contatti: Insekten Sekte, C.P. 190, 20025 Legnano (MI).
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Tra    i    miti
letterari  del  movimento sovversivo c'e' quello dei manuali  che  spiegano
"come  si  fa...",  mito che resiste nel tempo, solo  qualche  mese  fa  un
lettore  de il Manifesto  chiedeva di poter visionare -per una ricerca-  il
leggendario  manuale  di  guerriglia edito  da  Feltrinelli.  Tutto  questo
nonostante  qualcuno  abbia scritto che "e' piu'  rivoluzionario  un  testo
sulla  tecnologia delle armi da fuoco, che l'opera completa del  presidente
Mao"  (citazione  a  memoria). Spesso infatti  tra  le  pieghe  dell'enorme
quantita' di dati prodotta dai media e' possibile trovare informazioni che,
pubblicate  su un giornale sovversivo, porterebbero  all'immediato  arresto
dei  suoi editori. Tra gli ultimi casi, un trafiletto riportato dal  sempre
piu' incredibile quotidiano il Giornale (9/9/92), dal quale apprendiamo che
su  una  rivista dedicata ai temi della sicurezza e'  stato  pubblicato  un
dettagliato  articolo  sul modo migliore per fabbricare un'auto  bomba.  Le
pubblicazioni   sulla  sicurezza,  composte  da  un  90%   di   pubblicita'
redazionale  relativa  ai produttori di sistemi di allarme e  simili,  sono
sempre  state  una vera e propria miniera di informazioni per  chiunque  si
interessi  alle  tecnologie  che  lo stato e  il  capitale  sviluppano  per
mantenere  il  loro  potere.  Difficilmente  reperibili  -spesso  solo   in
abbonamento-  e di costo medio/alto, questi bollettini si  rivelano  sempre
fonte  di  notizie  abbastanza  attendibili,  non  dimentichiamo  che  sono
soprattutto una forma di pubblicita', ed aggiornate per chiunque si pone il
problema di come attrezzarsi di fronte alla societa' blindata che avanza.